Viaggiare è una delle mie passioni, insieme alla fotografia.
Questo è un regalo che faccio a me e al Ruolo Terapeutico, la mia scuola di specializzazione, e che testimonia il senso che fino ad ora ho costruito intorno alla mia identità professionale.
Ma il viaggio continua, sempre e comunque. E credo che non si arrivi mai al suo definitivo compimento.
Il bello, credo, sta proprio in questo non fermarsi mai …
In ogni incontro terapeutico ho ritrovato la sofferenza dell’essere umano, la solitudine. La voglia di nascondere questo aspetto, di negare a sé parti sofferenti, di celarle al mondo. Ma nello stesso tempo quegli stessi sintomi erano diventati l’unico modo per comunicare al mondo qualcosa di sé. Come un velo che se da una parte ci ripara dagli sguardi altrui dall’altra diventa il mezzo attraverso il quale ci rendiamo visibili.
L’incontro terapeutico, nella stanza d’analisi, diventa necessariamente un incontro, in primo luogo, tra due persone. Quello che l’esperienza con i pazienti mi sta insegnando è che non può nascere incontro se non c’è desiderio di rivolgere lo sguardo a sé. E spesso quando si compie il primo passo, come nella richiesta di cura, non lo si sa ancora, non c’è consapevolezza. Ma tutti gli incontri che sono avvenuti davvero e che quindi hanno continuato ad esistere e costruirsi nel tempo sono quelli che riportano un denominatore comune: il desiderio, la curiosità di guardare oltre, di andare oltre un vetro, una cortina che si ha la percezione di aver costruito per proteggersi. La voglia di cercarsi attraverso lo sguardo dell’altro, rivolgendo il proprio sguardo negli occhi del terapeuta. Per fare questo credo sia necessaria una buona dose di coraggio: è qui che si incarna la parte sana del paziente e con la quale ci si dovrebbe alleare. La parte che ci mostra la Persona come essere libero e responsabile. Sempre.
Nella relazione d’aiuto ho sperimentato quanto sia fondamentale muoversi all’interno di una cornice, la struttura. Un riferimento fisso, non modificabile ma che permette lo svolgersi di un processo e l’attribuzione di senso. Come una porta.
I suoi stipiti non possono essere spostati o cambiati eppure sono proprio questi elementi, così strutturalmente rigidi, che permettono di aprire su ciò che possiamo incontrare, guardare ed elaborare. E in tutto questo c’è sempre qualcosa di misterioso, non totalmente afferrabile ma che ci guida e ci permette di raggiungere davvero l’Altro e la sua essenza.
Nel mio percorso c’è sempre il tentativo di rispondere ad una domanda: “Ma quale è quell’elemento fondante che permette ad una persona di stare meglio attraverso un percorso di cura? Cosa vuol dire fare il terapeuta?”
Piero Coppo, in una intervista, ricorda: “La libertà non può essere data. Non ci sono salvatori ma alleati, che fanno senza fare, rendono possibile”. La mia funzione allora può essere quella di favorire la costruzione di una relazione strutturante affinché tutte le parti della persona che incontro possano emergere per rimettersi in un cammino di evoluzione e di crescita, più integrate. Fondamentale rimane il mio desiderio di essere lì, in quella posizione, in quel rapporto singolare con quel paziente: “funzione che non si può ridurre al desiderio medico di guarire, né a quello pedagogico di educare, né quello didattico di insegnare” (M. Recalcati.)
Sento la responsabilità di esserci, con sincerità e come testimone del fatto che la salute è possibile. Sergio Erba sostiene: “Nella relazione al terapeuta tocca un doppio compito: viverla secondo le proprie caratteristiche soggettive e governarla per accompagnare il paziente in direzione della salute, governo inteso come cura di sé nell’incontrarsi e nel rispondere all’altro secondo modalità le più sane possibili. (…)”.
Mi piace pensare al senso di un percorso terapeutico attraverso le parole di Cremerius in Seminari di Psicoterapia:
“Nessuno esce dall’analisi trasformato in un Dio. Siamo sempre noi, ma siamo cambiati perché diciamo: sono così e sono capace di accettarmi. E con queste forze che conosco mi faccio la mia vita. Credo che il paziente debba trovare una sua filosofia, noi non possiamo offrirgliene una. Deve arrivare a capire che ha tante cose che può usare, ma ce ne sono anche molte che non avrà mai ma è felice di avere quelle che possiede e poterle usare” . Penso alla professione del terapeuta come colui che riveste il ruolo di facilitatore di questo viaggio che avvicina sempre di più alla libertà di essere se stessi.
Ciò che è stato e tutto ciò che non potrà essere.
Ciò che c’è e che potrà essere.
Ciò che ho fatto fatica ad accettare di me ma che ora può coesistere con il tutto.
La parti che finalmente hanno trovato un modo per stare in equilibrio.
Ovviamente mai definitivo, ma pur sempre possibile.