E’ mattina, orario di punta, e in uno dei tanti vagoni della metropolitana di Milano e mi ritrovo schiacciata tra un numero indecifrabile di persone che lottano per rimanere in equilibrio, nonostante gli sbalzi dati dal veicolo.
Due signore parlano tra di loro e ad un certo punto, data la distanza di pochi centimetri che ci separa, non posso fare a meno di sentire una frase: “E perché dovrei andare dallo psicologo? Non sono mica matta io! E poi quelli là (gli psicologi, ndr) ti mettono in testa cose per farti cambiare come vogliono loro!”
Quella frase mi ha colpito particolarmente perché credo rappresenti una sintesi dei tanti pregiudizi, stereotipi e considerazioni errate che circolano intorno alla figura dello psicologo.
Mi piacerebbe allora provare a fare un po’ più di chiarezza su questa professione e, soprattutto, sulla sua utilità sociale.
Lo psicologo è il laureato in psicologia che ha sostenuto e superato l’esame di Stato che permette l’iscrizione all’Ordine degli psicologi. Per poter sostenere tale esame egli deve obbligatoriamente svolgere un tirocinio formativo della durata di un anno, nel quale fa esperienza nel campo della psicologia. Successivamente può scegliere di approfondire la sua competenza professionale frequentando un ulteriore percorso di studi che spesso si concretizza nella frequenza di una scuola di specializzazione, di quattro anni, per acquisire l’abilitazione alla professione di psicoterapeuta.
Da queste premesse è abbastanza ovvio poter affermare che psicologo e psicoterapeuta affrontano i problemi da un punto di vista psicologico: ma cosa vuol dire?
La psicologia presenta una differenza notevole rispetto alla medicina: la medicina si occupa di qualcosa di visibile e di oggettivo, il corpo umano; la psicologia, al contrario, si occupa di qualcosa apparentemente invisibile cioè la psiche o l’anima (la parola psiche in greco significa anima).
Si parte dal presupposto, quindi, che tutti i sintomi psicologici come l’ansia, gli attacchi di panico, la depressione, le fobie, i pensieri ossessivi e molti altri ancora ma che per ragioni di spazio non elencherò, siano l’espressione manifesta di una sofferenza che prende origine dalla parte più profonda di noi stessi, più o meno inconsapevole, che trova nel sintomo l’unico modo di uscire allo scoperto.
Mi piace regalare l’immagine che dentro di noi, nel nostro mondo interno, ci sia una sorta di teatro e, come in tutti i teatri che si rispettino, prendono vita sempre nuove storie, commedie o tragedie, messe in scena da attori diversi con ruoli spesso contrapposti. Ci potrà essere allora il brigante, il poliziotto, un condottiero coraggioso, una bambina impaurita, un ragazzino arrabbiato e così via.
Tutti questi personaggi rappresentano sfaccettature, sfumature di noi stessi. Quante volte nella vita ci siamo sentiti un po’ bambini tristi o arrabbiati? donne o uomini delusi? Persone impaurite o coraggiose?
Ciò che siamo dipende dalla nostra storia personale, dalla nostra infanzia in primis e in particolare dalle relazioni che abbiamo costruito con le nostre prime figure di riferimento (la mamma, il papà o chi si prendeva cura di noi). Queste prime esperienze definiscono una sorta di imprinting, una traccia che rimane dentro di noi e che ci influenza, durante la vita, nel modo in cui vivremo le relazioni successive.
Spesso queste impronte diventano una sorta di rigidi copioni che ripresentiamo sempre uguali e dai quali non riusciamo più ad uscirne. Ad esempio ci sono donne che non riescono a spiegarsi come mai si ritrovano a vivere sempre relazioni con uomini che le maltrattano o uomini che hanno sempre relazioni con donne che li sottomettono, non riconoscendogli un valore.
Ci sono poi i veri e propri sintomi, come accennavo sopra, che spesso limitano fortemente la nostra vita personale e sociale. Spesso la paura, o meglio la fobia, ha un carattere apparentemente spaziale: cioè si teme uno spazio aperto (troppo grande) o uno spazio chiuso (troppo piccolo). O si temono altre cose: di impazzire, di trasgredire, di commettere crimini oppure di ammalarsi gravemente o, infine, di morire. Esistono altresì paure bizzarre come la paura di fare la fila in ufficio, la paura di fare una anestesia, la paura di prendere l’aereo, di percorrere un’autostrada, un ponte, o una galleria, la paura degli sguardi altrui e così via.
La sofferenza si manifesta anche attraverso gli attacchi di panico, veri e propri momenti di terrore assoluto che compaiono apparentemente senza motivo, lasciando la persona nella paura che possa ricapitare; durante questi attacchi si possono vivere diversi sintomi a volte più fisici come tachicardia, formicolio, senso di nausea, sudorazione, sensazione di asfissia o più psichici come sensazione di irrealtà, di perdere il controllo, di svenire.
Di fronte a tutte queste manifestazioni di sofferenza l’essere umano è libero di scegliere che tipo di posizione assumere; può muoversi come oggetto sul quale verranno esercitate delle cure ma nei confronti delle quali lui sarà passivo (si pensi a quando assumiamo dei farmaci: è il farmaco che dovrebbe risolvere la situazione, non noi), oppure partecipe alla terapia, che si assume la responsabilità di sé, di individuo indipendente e padrone della propria vita e che quindi potrà agire da attivo protagonista.
Il lavoro che svolge lo psicoterapeuta è proprio quest’ultimo: rendere la persona responsabile delle proprie risorse e possibilità di cambiamento.
Psicologo e paziente intraprendono un percorso esperienziale e conoscitivo che non segue itinerari già tracciati. E’ una ricerca che rispetta l’unicità del paziente e ha per scopo la liberazione della creatività, l’emancipazione e la conquista dell’autonomia.
I sintomi psicologici sono come la punta di un iceberg, le grandi masse di ghiaccio che galleggiano nel mare. La punta è la parte visibile ma ciò non toglie che, al di sotto della superficie dell’acqua, ci sia tutta un’altra parte che non vediamo, ma c’è: essa rappresenta la causa del nostro malessere.
Solitamente sono dei conflitti tra parti diverse di noi stessi o ferite psicologiche più o meno antiche, non risolte e non elaborate, che ancora ci provocano dolore.
Purtroppo, nella nostra società Occidentale e soprattutto in questo periodo, la sofferenza psicologica viene vista un po’ come una debolezza; si è molto attenti alla propria salute fisica: se si ha mal di denti, ad esempio, si corre dal dentista e questo viene giudicato come un comportamento lecito e assolutamente normale ma se invece il problema arriva dall’interno di noi ecco che spesso tendiamo a rimandare, evitare, negare l’esistenza di una difficoltà perché temiamo che gli altri se ne accorgano e ci definiscano “matti”, “non normali”. A questo punto diventiamo bravissimi a nascondere, a inventare scuse per non uscire, ad esempio, e a prenderci in giro dicendo a noi stessi “ma non è niente”, “non bisogna pensarci”.
Però continuiamo a stare male: capita spesso che una persona (o un suo familiare o una persona vicina) si rivolga ad uno psicologo solo quando i sintomi di un qualche disagio sono diventati ingestibili e la vita è compromessa in vari ambiti mentre, in realtà, chiedere aiuto ai primi segnali di disagio è essenziale per prevenire l’aggravamento di una situazione.
Attraversare momenti di malessere psicologico può capitare a tutti, non c’è nessuno che ne è immune ma , soprattutto, NON è indice di pazzia! Siamo persone con il nostro modo di stare al mondo e di soffrire ed è assolutamente umano star male e provare emozioni, fa parte della nostra natura.
Decidere di consultare uno psicologo non è indice di malattia ma significa assumersi la responsabilità di sé stessi e della propria vita e smettere di credere che debbano essere gli altri a risolverci i problemi.
Lo psicologo non vuol erigersi a giudice che getta nel cestino tutta la nostra vita donandoci la “verità” su come va vissuta ma, anzi, ci aiuta a diventare indipendenti, facendo leva sulle risorse che esistono già dentro di noi ma che a volte, per diverse motivazioni, ci dimentichiamo di avere o facciamo fatica ad utilizzare.
In questa società dove prevale il consumismo, l’apparire e la forma più che la sostanza, si rischia di perdere di vista se stessi e il significato del perché ci accadono alcune cose piuttosto che altre e, soprattutto, la motivazione della nostra sofferenza. I farmaci possono essere utili poiché ci rendono più sopportabili alcuni sintomi, ma non risolveranno mai la causa psicologica della loro esistenza. Per recuperare noi stessi e risolvere l’origine del nostro dolore possiamo solo decidere di compiere un viaggio, quello all’interno di noi stessi attraverso l’aiuto di uno psicoterapeuta.
E il vero professionista sarà proprio colui che, tornando alla frase delle due donne in metropolitana citate all’inizio di questo articolo, non “vi metterà in testa” proprio nulla ma saprà accompagnarvi nella scoperta delle tante ricchezze e risorse che abitano già dentro di voi.
d.ssa Paola Cipriano
Psicologa Milano